Quando un certo tema viene presentato come «evidente», così evidente da non meritare nemmeno una spiegazione, allora occorre drizzare le orecchie e prestare attenzione. Perlomeno, dovrebbero farlo quelli che si occupano di filosofia, perché quando si danno troppe cose per scontate l’odore dell’ideologia sale a volute e riempie le stanze (reali o virtuali che siano).
In questi giorni mi pare sia il caso della didattica, ossia del dibattito sul modo «giusto» di insegnare.
Tutti sono a parlare bene della «didattica in presenza», contrapposta alla «didattica a distanza», la famosa (o famigerata) Didattica a Distanza che in un modo o nell’altro ha tenuto in piedi la scuola italiana durante l’emergenza Covid-19.
Tutti dichiarano nostalgia, come la collega Zenone su una pagina di Facebook il 25 maggio 2020:
Non voglio essere una Brava Maestra “a distanza”, voglio tornare ad essere una normale Maestra in presenza.
Sì, in presenza, come quando si fa l’appello al mattino e li guardo, assonnati e con ancora i loro sogni attorcigliati tra i capelli. Il loro vociare stridulo che ti riporta alla realtà, ti fa sentire la nostalgia del silenzio, ti fa contare i giorni che mancano al prossimo Ponte. Il loro continuo movimento che somiglia ad un formicaio in piena attività e ti ricordare ogni giorno da quanto non fai una corsa liberatoria in un prato. E vogliamo parlare degli sguardi? Questi mi mancano più di tutti:occhi negli occhi, senza la barriera di uno schermo, occhi che sorridono, occhi che si inumidiscono, occhi furiosi, occhi curiosi e occhi malinconici.
Ma da quanto non sentite più profumo di matite temperate, di merende scartate e di libri colorati? Insieme, in classe hanno un sentore diverso… Un profumo di scuola
Ecco cosa mi manca…
Ha fatto un certo scalpore l’intervento di Cacciari su La Stampa del 20 maggio 2020, in cui il filosofo, insieme a una ventina di altri firmatari, esclamava: «dare superficialmente per assodata l’intercambiabilità fra le due modalità di insegnamento – in presenza o da remoto – vuol dire non aver colto il fondamento culturale e civile della scuola, dimostrandosi immemori di una tradizione che dura da più di due millenni e mezzo e che non può essere allegramente rimpiazzata dai monitor dei computer o dalla distribuzione di tablet», aggiungendo subito: «Ne consegue che la scuola non vuol dire meccanico apprendimento di nozioni, non coincide con lo smanettamento di una tastiera, con la sudditanza a motori di ricerca. Vuol dire anzitutto socialità, in senso orizzontale (fra allievi) e verticale (con i docenti), dinamiche di formazione onnilaterale, crescita intellettuale e morale, maturazione di una coscienza civile e politica». Per finire con l’intervento senza appello di Massimo Recalcati su Repubblica del 19 giugno 2020: «la relazione non è qualcosa che si aggiunge alla didattica come una sua appendice esterna, ma è la condizione di ogni didattica. Dunque non esiste una didattica a distanza. La tecnologia non può supplire alla vita comunitaria della scuola».
Tutti, insomma, sono a definire la scuola «in presenza» come «vera» e «autentica», quella «a distanza» come un «ripiego» e una «emergenza»: ma in cosa consiste, esattamente, chiedo io, la differenza tra le due?
Il primissimo livello di risposta si colloca banalmente nella tecnologia. Ascoltare una persona di cui si sente una frase si e una no mentre il buffer di riempie e poi si vuota di colpo accelerando video e audio non è certamente paragonabile al flusso continuo di informazioni che ci proviene da una dialogo in presenza. E lo stesso si può dire della qualità del video. Quindi tutti coloro che puntano il dito sulle differenze di classe sociale e di reddito che il lockdown e la DaD hanno impietosamente messo in luce hanno ragione, senza dubbio. E di conseguenza hanno ragione tutti coloro che fanno presente che senza investimenti massicci e reali da parte dello Stato non si va da nessuna parte. Et de hoc satis.
Ma io vorrei porre una domanda diversa: al di là dei problemi tecnici, dove sta la differenza essenziale tra l’insegnamento/apprendimento in presenza e quello a distanza? Perché tutti gli insegnanti vogliono tornare alla lezione «in presenza»?
Preciso che le mie riflessioni si concentrano esclusivamente sulla scuola superiore, e nella scuola superiore solo sul secondo biennio e l’anno conclusivo: un periodo in cui i ragazzi non sono più bambini, in tutti i sensi.
Quindi vediamo di mettere a fuoco il tema di queste righe: aiutatemi a demistificare la «lezione in presenza». Si tratta di compiere quella che in filosofia si chiama «ricerca fenomenologica», cercando di lasciare cadere tutti i pre-giudizi per lasciare emergere «la cosa in sé». Sia chiaro fin da subito: non mettetemi tra quelli che, accusati di essere «servi di Confindustria», vorrebbero far sparire la scuola pubblica, o cose di questo genere. Sto solo cercando di capire: nec ridere, nec lugere, nec detestari, sed intelligere. E quello che voglio cercare di capire meglio è proprio l’essenza di quelle attività che chiamiamo «insegnare» e «imparare», sfruttando l’esperienza COVID come un immenso esperimento sociale.
Teniamo presente anche che la situazione che stiamo vivendo non è quella di una formazione totalmente a distanza. Noi tutti abbiamo conosciuto i nostri ragazzi, li abbiamo visti da vicino, ne abbiamo perfino sentito l’odore (o il tanfo di sudore, in certi casi, oggi decisamente più rari che nel secolo scorso): usando webcam, computer, Moodle e simili stiamo solo articolando un rapporto che esisteva già e che non va costruito da zero come in una vera formazione a distanza (sto pensando per esempio ai corsi di aggiornamento professionali o aziendali, che sono davvero impersonali e che infatti non sempre sono efficaci nella trasmissione delle conoscenze). Anche se dovessimo fare scuola per qualche mese con le classi divise in due (una parte in classe una parte a casa), come si ventila al momento in cui scrivo (giugno 2020) resterebbe sempre il periodo «in presenza» in cui riallacciare i legami empatici di cui si diceva sopra.
Cominciamo.
Il primo argomento a favore del rientro in classe è l’abitudine. È ovvio che tutti ci sentiamo più a nostro agio stando in classe: è quello che abbiamo fatto per anni, in alcuni casi per tutta la vita. Sappiamo come fare, sappiamo come fronteggiare le emergenze, sappiamo in generale come trattare i ragazzi (o almeno siamo convinti di saperlo). Stare in classe ci è comodo, da tanti punti di vista. Esiste un fattore «abitudine» di cui dobbiamo tener conto. Credo che siamo tutti d’accordo però nel dire che la semplice abitudine non possa essere un criterio di verità o di validità. Non credo si possa dire che la didattica in presenza sia quella «vera» solo perché è quella che abbiamo fatto fino a questo momento. Al massimo si può dire che è la più comoda, proprio perché è quella cui siamo abituati. Se è davvero quella «vera» ci dovrebbero essere dei motivi più profondi, più strutturali, più essenziali, e sono quelli che vorrei portare alla luce (se ci sono). L’argomento del «si è sempre fatto così» non è di per sé un argomento (anche se il «consensus omnium» ha il suo peso). Perciò archiviamolo e andiamo avanti.
Il secondo argomento che viene portato a favore della lezione in presenza è quello di una comunicazione più «autentica» tra il docente e lo studente, attraverso tutta una serie di messaggi non verbali che passano attraverso il corpo, l’atteggiamento, le sfumature dello sguardo e così via. Questo è un argomento più serio.
Quando siamo «in presenza» sicuramente noi siamo nelle condizioni di raccogliere e trasmettere tutta una serie di «messaggi non verbali», che raccogliamo e trasmettiamo in modo per lo più inconscio attraverso la nostra prossemica e la aptica. Una parte di questi messaggi certamente non possono essere trasmessi né raccolti da un’inquadratura a mezzo busto. Se io mi alzo dalla cattedra e mi sposto alla finestra altero gli equilibri percettivi che i ragazzi avevano fino a quel momento e posso focalizzare l’attenzione su qualcosa di nuovo; se vado a torreggiare sopra un ragazzo che mi sembra abbia un foglio sotto il banco trasmetto (spero) il senso di qualcosa che non va fatto; se mi tolgo la giacca e mi siedo su una sedia libera vicino a una ragazza tutta pallida e sudata che è in affanno perché non riesce nemmeno a capire il senso della domanda sulla scissione della coscienza descritta da Platone nel mito della biga alata posso (forse) trasmettere empaticamente il senso di vicinanza e di aiuto che posso offrire. Tutto questo è certamente vero, ma è poi davvero così importante, al di là della soddisfazione del mio ego nel vedermi sempre al centro della situazione? È davvero qualcosa che fa parte per essenza del processo di insegnamento/apprendimento? È qualcosa cioè senza la quale non si può parlare di insegnamento/apprendimento?
L’apprendimento, lo sappiamo, ha un componente anche emotiva, che «fissa» meglio la conoscenza nell’intreccio della narrazione che di noi facciamo a noi stessi (i paradigmi dei verbi irregolari greci che ancora ricordo sono legati alla memoria del mio docente di quinta ginnasio e all’aura di autorità in parte paterna in parte poliziesca che lo circondava): l’emozione ha bisogno a sua volta di una empatia che non si vede come possa scaturire da un monitor. Vero. Ma è anche vero che l’emozione può avere un ruolo opposto, distraendo l’attenzione dello studente dal suo compito: quante volte noi insegnanti ci siamo sentiti dire che una interrogazione o una verifica sono andate male perché lo studente era «agitato», «emozionato», «sconvolto» e così via? Non a caso, molte testimonianze di studentesse e di studenti durante il periodo di lockdown riguardano il senso di maggiore tranquillità e sicurezza in se stessi che i ragazzi hanno provato sostenendo una interrogazione a casa loro, in un ambiente familiare, senza essere sotto lo sguardo dei compagni. Come dire: non tutto il male vien per nuocere.
Il tema della «presenza» è connesso inevitabilmente con quello della corporeità: essere «in presenza» significa essere fisicamente (cioè corporalmente) in prossimità di un altro corpo, in modo tale che si stabiliscano dei legami particolare di apertura coscienziale (quella che chiamiamo «attenzione»).
Perciò possiamo anche reimpostare la questione così: quanto conta il corpo nell’insegnamento / apprendimento? A quanto pare infatti è questo che manca nella Didattica a Distanza. A prima vista, riemergono subito le differenze legate alle classi di età (che poi diventano una metafora semplice per alludere alle forme di apprendimento diverse che si susseguono durante la crescita): una maestra delle primarie deve abbracciare ed essere abbracciata, deve pulire nasi e allacciare stringhe delle scarpe, deve guidare la mano nel tracciare una linea e aiutare a tagliare dritto un foglio di carta (o almeno mi immagino io, sulla base dei miei ricordi: è ancora così?). Un professore del liceo (soprattutto se maschio e sessantenne come me), però, se sfiora una diciottenne rischia la denuncia per violenza sessuale. Il lavoro dell’insegnamento può essere molto intimo, ma certamente al liceo è soprattutto mentale: devo aiutare i ragazzi e le ragazze che mi stanno davanti a costruirsi un’immagine di sé, del mondo e degli altri che sia la più ricca e profonda possibile, in modo che possano prendere le decisioni che li riguardano nel modo più razionale e responsabile possibile. Per fare questo devo essere fisicamente davanti a loro? Ripeto: facendo la tara sui problemi tecnici di comunicazione.
Da un punto di vista più filosofico, se la didattica non è più tale se non è in presenza, allora significa che l’essenza noematica dell’insegnamento/apprendimento (ciò per cui l’insegnamento/apprendimento è insegnamento/apprendimento) consiste nell’essere presenti l’uno all’altro del docente e del discente. Ma non può essere il semplice essere uno di fronte all’altro (fisicamente) l’essenza dell’insegnamento, perché esistono numerosissime forme di rapporto di questo tipo che sicuramente non sono qualificabili come”insegnamento” o ”didattica”: è “ovvio” che ciò che qualifica l’insegnamento/apprendimento come tale è qualcos’altro, e se è qualcos’altro non è detto che debba per forza verificarsi solo in presenza (presenza fisica, intendo, in uno spazio fisico condiviso). Si risponderà: no, l’essere in presenza è solo una “condizione di possibilità” della didattica autentica. Appunto: quindi l’essenza della didattica autentica è qualcosa d’altro.
Proviamo ad affrontare la questione da un altro punto di vista ancora.
Esiste certamente una sorta di «moral suasion» che deriva da un processo di imitazione, anche inconscia. Io insegnante, che lo voglia o no, semplicemente per il fatto di essere inserito in una rete di relazioni umane ben precisa come è quella che si realizza a scuola, vengo presentato agli studenti come un «modello», come un «punto di riferimento» (uso queste parole in senso neutro, senza quella sfumatura positiva che viene dal considerare il «modello» come qualcosa da imitare per il fatto di essere portatore di valori positivi. Se scrivessi in inglese userei la parola «beacon», parola che indicava il fuoco acceso sulla cima delle colline per guidare le navi, e passata poi a indicare i fari e ogni elemento cospicuo artificiale che possa essere utile a dirigere la navigazione). Questo legame particolare a quanto pare si attiva grazie ai cosiddetti «neuroni specchio», che ci spingono a imitare il comportamento di chi ci sta di fronte, interiorizzando quindi la passione e l’interesse del docente per quello che sta spiegando. Questa moral suasion, questa guida più o meno empatica sembra difficile da far vivere attraverso il medium elettronico, perché chi guarda non vede una persona, ma una immagine su uno schermo.
D’altra parte, non è che questa dinamica sia necessariamente di segno positivo: noi insegnanti possiamo risultare anche noiosi, antipatici, insopportabili, odiosi e provocare una reazione di rigetto nei ragazzi che abbiamo di fronte. Il punto di riferimento non indica più la rotta verso il mare aperto, ma una secca o uno scoglio da cui stare il più lontano possibile. Tutti i supposti benefici della «lezione in presenza» se ne vanno a farsi benedire. Certo, agli studenti rimangono i benefici della relazione tra pari, posto e non concesso che siano di segno positivo e non, anch’essi, elementi di sofferenza.
Perciò non è la lezione in presenza in quanto tale che dobbiamo cercare, ma la lezione «ben fatta»: che evidentemente è cosa diversa.
Una piccola divagazione: se pensate che la presenza «in carne ed ossa» sia un elemento decisivo nel vostro lavoro di insegnante, allora per un minimo di coerenza dovreste non solo curare con attenzione il vostro aspetto fisico (capelli, vestiti, scarpe, unghie) ma anche la vostra gestualità e soprattutto la vostra voce: ma quanti di noi hanno mai fatto un corso per attori? Eppure avremmo dovuto, se di fatto esercitiamo una visione «teatrale» della scuola (l’insegnante è sul palco e deve essenzialmente «catturare l’attenzione» del pubblico, rappresentato dagli studenti; che però non è un vero pubblico, perché è obbligato ad assistere alla performance e oltretutto alla fine sarà lui, il pubblico, ad essere formalmente giudicato, e non chi è sul palco).
Torniamo alla nostra analisi fenomenologica della lezione in presenza. Se il compito di un insegnante al liceo è quello di aiutare i suoi studenti a formarsi una visione del mondo, è essenziale per ottenere questo risultato essere in presenza? Cosa c’è, nella lezione in presenza, che la qualifica come il modo «autentico» di formare le persone?
È certamente vero che quando sono in classe e guardo un ragazzo il mio campo percettivo (visivo e uditivo) si allarga a tutta la classe, senza salti o spazi mancanti, nella classica struttura gestaltica oggetto-sfondo. Perciò mi accorgo, guardando Ermenegildo, che Genoveffa sta tirando fuori il cellulare e, senza distogliere lo sguardo da Ermenegildo, posso richiamare la signorina in questione con i toni che la situazione mi suggerisce (ironici, seccati, decisamente arrabbiati), provocando così la reazione ma-come-ha-fatto-prof? che tutti gli insegnanti conoscono bene. Questo giochino, se cerchiamo di farlo stando dietro le webcam, naturalmente non funziona. Questo è particolarmente evidente al momento della valutazione, soprattutto orale. Io stesso per moltissimo tempo ho sostenuto che ci sono due cose sulle quale lo studente non può barare al momento dell’interrogazione: lo sguardo e il tono di voce. Implicitamente ammettevo così che la mia valutazione dipendeva (dipende) da una serie di parametri «olistici» non oggettivabili né misurabili, per i quali il fattore chiave era (è) la mia stessa persona, la mia formazione, la mia costellazione di valori. Tutti parametri testati durante la mia formazione e certificati, una volta per tutte, con un esame (severo, bisogna riconoscerlo, a cui però non è seguito nulla) circa 35 anni fa. Indubbiamente tono di voce e sguardo sono difficili da valutare attraverso la webcam (lasciando da parte per un attimo la questione dei possibili suggerimenti o dei possibili testi o appunti che lo studente si tiene sottomano). È proprio il medium che seleziona certi stimoli creando un certo campo percettivo, diverso da quello che si ha in un’esperienza «dal vivo», anche se non dovrebbe essere difficile usare il cellulare dello studente per creare una seconda webcam che permetta di avere un controcampo e quindi avere maggiormente sotto controllo la situazione.
Ecco, siamo incappati quasi per caso in una parola che forse ci può aiutare a comprendere meglio la situazione. Questo infatti è (o può essere) il modo in cui un insegnante si rapporta con i suoi studenti in classe: «tenere sotto controllo la situazione». Non voglio qui dare un senso «poliziesco» a queste parole, o almeno non solo. Bisogna seguire le sfumature della lingua. Dire che il docente vuole «avere il controllo della situazione» è troppo ambizioso: vorrebbe dire che io insegnante intervengo in ogni minimo dettaglio della vita della classe durante la mia ora, ispezionando tutto e dominando tutto. L’espressione «tenere sotto controllo la situazione» invece mi sembra che, anche linguisticamente, implichi proprio l’idea cara alla fenomenologia dell’«avere-alla-mano», dell’ «avere-a-disposizione» qualcosa che sta sullo sfondo (e quindi non è al centro esatto dell’attenzione) ma che può essere facilmente recuperato. Io spiego la dialettica trascendentale di Kant o la dinamica di lunga durata che si innesca all’inizio del secolo breve, ma «tengo-sullo-sfondo», e quindi «sotto controllo», immediatamente disponibili, una grandissima quantità di fattori e di elementi: i volti degli studenti, il loro atteggiamento corporeo (forward position / backward position, per esempio), la direzione degli sguardi, eventualmente il flusso della loro scrittura, i bisbiglii che si passano tra loro, e così via fino alla domanda esplicita dello studente e al dialogo che ne può scaturire. È una forma di presenza attenuata ma realissima: presenza di sfondo, appunto, che in ogni momento può sbocciare ed essere portata in primo piano. È ciò che rappresenta la ricchezza della lezione in presenza: le potenzialità che si rinnovano ogni volta di un’apertura diversa, di un manifestarsi diverso delle persone che mi stanno davanti.
Attenzione: prima di esclamare trionfanti «Ecco! È proprio quello che dicevo io! La lezione in presenza è meglio di quella a distanza! Discorso chiuso, spegnete i computer e aprite i quaderni», prima di saltare a questa conclusione, dicevo, vi inviterei a riflettere sul fatto che quello che ho descritto è solo una potenzialità. Non è affatto detto che automaticamente la lezione in presenza sfrutti queste situazioni di sfondo per portarle in primo piano. Tutto questo fiorire di opzioni e di prospettive diverse che entrano in costruttiva relazione reciproca non sono affatto cose che avvengono da sole. La possibilità che il delicato e fragile ventaglio delle opzioni (il dialogo docente-studente) si chiuda fino ad assomigliare molto a una rigida bacchetta (lezione versativa unidirezionale) sono al contrario molto alte, per una elementare questione di risparmio di energie. Di nuovo, non è il fatto di essere in presenza che rende una lezione «una buona lezione», ossia una lezione efficace dal punto di vista comunicativo. Anche nella lezione in presenza la tentazione del trincerarsi dietro l’«ipse dixit» («è così, punto; ed è così perché lo dico io» ovvero «perché c’è scritto su manuale», di cui il docente si fa portatore e mero trasmettitore) è sempre presente perché è infinitamente più comoda in termini di risparmio di tempo e di energie (dell’insegnante): da questo punto di vista la lezione a distanza non è poi così diversa da una lezione in presenza in cui il docente parla dalla cattedra per cinquanta minuti e poi se ne va. In fondo, se è vero che il docente che arriva nelle case con una videolezione in cui una voce commenta un Power Point assomiglia tanto a Pitagora che parla da dietro la sua tenda, la sua variante in classe che trasmette il suo messaggio in modo unidirezionale verso la platea di studenti costretti a ricevere passivamente le informazioni non è poi tanto diversa né tanto migliore.
Ma in presenza, si dice, «gli studenti possono fare domande», «possono far vedere l’esercizio che non viene», «possono chiedere di ripetere un pezzo di spiegazione che non hanno capito»: in altre parole, in presenza c’è una interazione tra docente e studente che a distanza non c’è. Ma quale di queste azioni non può essere fatta anche attraverso i moderni sistemi di videochat (al netto, come abbiamo detto all’inizio, dei problemi di connessione)? Zoom, Jitsi, TheBigBlueBotton e altri possiedono tutti la funzione «raise hand» per richiamare l’attenzione del docente e chiedere di avere la parola per fare una domanda; e tutti i sistemi dispongono di un chat testuale che, di fatto, svolge la stessa funzione. Al limite, anche senza avere a disposizione tavolette grafiche o sistemi di scansione veloci delle immagini, basta che lo studenti posizioni davanti alla webcam il quaderno aperto alla pagina dell’esercizio che non viene perché il docente possa fare una diagnosi e indicare dove sta l’errore.
Ma gli studenti in una lezione a distanza possono «spegnere la webcam con la scusa della connessione che salta», «possono guardare le chat su WhatsUp», «possono caricare come immagine del proprio profilo una foto presa con la webcam in modo da dare l’impressione di esserci mentre si stanno facendo gli affari loro»: e con ciò siamo tornati alla questione del controllo. In una lezione a distanza l’insegnante non ha il controllo della classe, né dei singoli studenti. O meglio, il suo potere di controllo diretto si indebolisce, proprio in virtù o a causa del medium: quel controllo (vorrei evitare di dire «potere», nonostante tutto) che in modo automatico gli viene dato dalla configurazione fisica e corporea che si ha nelle aule non c’è più perché non c’è più l’aula. In realtà, come abbiamo già detto sopra, la tecnologia potrebbe supplire, e in modo ancora più pervasivo: poiché il senso di mancanza di controllo da parte del docente viene dal fatto che la webcam installata sul computer dello studente restituisce una prospettiva solo parziale sull’ambiente (l’angolo visuale delle webcam oscilla tra i 60° e i 70° gradi), è tecnicamente possibile coprire questi angoli morti sfruttando anche un vecchio smartphone dello studente come seconda webcam posizionata in controcampo (per esempio, alle spalle dello studente e rivolta in modo da inquadrare la sua postazione di lavoro). Questa considerazione tecnica, a prescindere dalla massa di problemi legali e giuridici connessi al tema della privacy, ci riporta al nocciolo della questione: nella Didattica a Distanza gli studenti sfuggono al normale controllo che gli insegnanti esercitano su di loro, e devono essere in qualche modo «riconquistati» in altro modo.
Indubbiamente, «le cose vanno dette» (ossia «devo fare il programma», «devo spiegare»). La comunicazione verbale deve avere la sua importanza. La «spiegazione», come suggerisce l’etimo, consiste nello «spacchettare» per così dire i contenuti nascosti, così come succede quando apro un pacco e porto alla luce quello che c’era dentro.
Ma è una cosa così essenziale all’insegnamento farlo oralmente e farlo in presenza? Alla fin fine quello che devo ottenere è un risultato: il ragazzo che mi è stato affidato deve essere in grado di affrontare il mondo nel modo più aperto e razionale possibile, avendo capito «come fare» a capire se stesso e gli altri.
Indubbiamente il modo più semplice della trasmissione educativa è per imitazione: ci si aspetta che la costellazione di valori e di interessi che abita e sostiene il docente passi, per una sorta di «osmosi intellettuale», nel discente. Il bello è che funziona: come dicevo, le scienze neurologiche affermano che i famosi «neuroni specchio» sarebbero i responsabili di questo meccanismo spontaneo, che tutti noi abbiamo vissuto nei due sensi. Tutti noi abbiamo provato un mix di rispetto, ammirazione, invidia e timore nei confronti almeno di qualcuno degli adulti che il sistema ci ha messo davanti dicendo «fa’ quello che ti dice di fare!»: e ripetendo i suoi gesti, o facendo effettivamente quello che ci chiedeva di fare, abbiamo scoperto di diventare migliori, sotto questo o quel profilo.
Dai tempi di Socrate (giusto per avere un riferimento che ci permetta di capirci bene), tuttavia sappiamo che il rapporto tra il maestro e il discente è maieutico: non si «versano» le conoscenze nel cervello dei ragazzi con un imbuto come a quanto pare volevano fare a Norimberga, perché il processo di apprendimento non consiste solo nell’acquisizione «bruta» di informazioni, ma nel capire cosa farne, ossia come unire le informazioni e le conoscenze tra loro in un discorso articolato e fondato. Solo una volta superata la fase della memorizzazione bruta delle informazioni o delle operazioni da fare (livello 1 su 6 della tassonomia di Bloom, livello che ahimè per tantissimi studenti rappresenta il «totum» dello studiare) si può cominciare a lavorare sul serio, con l’obiettivo non di clonare se stessi negli studenti ma di metterli nelle condizioni di percorrere le loro strade, ossia di trovare le loro personali risposte ai problemi che la vita pone.
[Scusatemi, ci tengo a precisare una cosa: la fase della memorizzazione delle informazioni non si può saltare. Non si può cominciare dalle «competenze» da sole, ossa dal «saper fare». Le conoscenze sono essenziali: sono come i mattoncini del Lego (o di una casa, se preferite). Io posso avere i progetti costruttivi più ambiziosi, ma se ho pochi mattoni, o mattoni storti, costruirò una casa piccola e brutta, e che magari crollerà; e viceversa io posso avere mucchi e mucchi di mattoni, ma senza un progetto non diventeranno mai una casa. Quindi si, bisogna conoscere la coniugazione irregolare di fero, fers, tuli, latum, ferre; e si, bisogna sapere in quale giorno l’Italia è entrata in guerra nel 1915; e sì, bisogna conoscere un’infinità di cose]
Il «dialogo educativo» non è tra pari. Lo so, lo so, questa affermazione buttata così in mezzo alla discussione, senza adeguata preparazione, sa di tradimento. Assumiamola almeno come ipotesi, anche perché tra i tanti sensi che può avere qui voglio affrontarne uno solo, quello che mi pare più vicino al tema che stiamo discutendo e che è anche il più semplice e indubitabile: l’insegnante è, in ogni lezione, uno solo, mentre gli studenti sono molti. La asimmetria del dialogo educativo in classe si stabilisce fin dal primo istante, per una ragione strutturale e «numerica» (questo getta una luce estremamente interessante su una ipotesi diversa: cosa succederebbe se ci fossero più insegnanti contemporaneamente? Ma qui dobbiamo chiudere subito questa porticina, per quanto affascinante possa esserci al di là).
Ogni classe è anche una piccola tribù (o se volete un piccolo villaggio), in cui vale il principio «invasivo» della comunicazione oralista e acustica di cui parlano McLuhan, Ong e la scuola di Toronto. La parola parlata, e a quanto pare solo quella, ha il potere della fascinazione e del «rapimento» più o meno estatico, trascinatorio, nel quale tutti noi cadiamo quando siamo di fronte a una persona che sa veramente parlare. È indubbio che questo modello comunicativo aumenta il senso di comunità, il sentirsi uniti, e sicuramente anche questo è un passaggio importante nella formazione delle persone. Io credo che tutti noi abbiamo fatto, in un qualche momento, l’esperienza del «pendere dalle labbra» di qualche insegnante, con il quale si creava un forte rapporto emotivo. Certamente non è stata una esperienza continua, forse neppure prevalente, ma almeno qualche volta sarà capitato. Tuttavia, come ricorda Walter Ong citando Omero, le parole «sono alate»: volano via, fluiscono fuori dalla coscienza un attimo dopo esservi entrate e non vi lasciano traccia, se non un generico ricordo di un’emozione positiva (o negativa). Se volete esprimervi in modo meno poetico e più vicino alla terminologia della psicologia sperimentale, possiamo dire che vengono cancellate dalla memoria a breve termine prima di essere trascritte in quella a lungo termine. Resta il fatto, vissuto da tutti in prima persona, che quando la madre o il padre chiedono, a pranzo: «Che cosa avete fatto di bello oggi a scuola?» la risposta nella stragrande maggioranza dei casi è «Niente»: non solo per pigrizia, non solo per la mancanza di voglia di incominciare una discussione, ma proprio perché non ci si ricorda nulla, anche se poche ore prima eravamo stati attenti e ci sembrava di aver capito tutto.
L’esperienza della tribù compatta il gruppo, ma non è detto che automaticamente si traduca in educazione (acquisizione di valori), istruzione (acquisizione di conoscenze), formazione (acquisizione del saper fare). Di nuovo, non è che automaticamente la lezione in presenza si traduca in una «buona lezione» per il semplice fatto di essere in presenza.
L’obiettivo dell’insegnamento è quello di formare i ragazzi con una visione del mondo più articolata e aperta, questo obiettivo ha bisogno di avere le persone di fronte? Avere 20 o 25 ragazzi tutti insieme davanti aiuta in questo lavoro? Non eravamo noi insegnanti a lamentarci sempre delle classi-pollaio? Non si lavora meglio avendo davanti piccoli gruppi di studenti?
Quello che è essenziale è la «prossimità» agli studenti, è lo «star vicino» a loro: che non è affatto una questione fisica e materiale, almeno per gli studenti delle superiori.
Consiste in una capacità di ascolto, in una disponibilità di tempo, in una apertura al dialogo. Paradossalmente può essere che la possibilità del collegamento a distanza, attraverso la videochat, possa realizzare un equilibrio accettabile tra intimità (io e lo studente siamo soli) e distanza (non siamo fisicamente a contatto; non c’è il rischio di un fraintendimento), quell’equilibrio che serve per il dialogo maieutico. Il dia-logos, ossia il logos (pensiero che manifesta l’essere e che collega gli elementi in gioco) che passa-tra (la particella greca dia-) te e me, è la base di ogni educazione. Non è detto che possa scaturire solo in presenza e dalla presenza.
Quello che è vero è che il rapporto uno-molti che lo stare in classe impone come forma è estremamente vantaggioso in termini di risparmio di energia mentale e sociale: piazzando un solo insegnante (in realtà una decina) in una classe, tiro su 25 persone.
Lavorando in modo maieutico, in un rapporto cheeck-to-cheeck, il rapporto crolla a 1 a 1, molto più costoso da tutti i punti di vista.
Esaminiamone uno solo, che forse raccoglie tutti gli altri. il tempo.